Cliccate qui per visualizzare normalmente la pagina (in configurazione e grafica). Se non ci riuscite, controllate che il vostro navigatore accetti JavaScript e supporti i CCS. Vi raccomandiamo un navigatore, che rispetti gli standard, come: Google Chrome, Firefox, Safari...

Vi trovate qui: home > extra > domande frequenti
domande frequenti

Lista delle domande

Cliccate su di una domanda per accedere alla risposta corrispondente.

A proposito di Buddha


Buddha è un dio?
Dove si trova oggi Buddha

A proposito del Dhamma


Cosa è il nibbāna?
Cosa è il buddhismo?
Il Dhamma è una filosofia?
Esiste una vita dopo la morte? Se sì, come spiegarla?
Perché la natura favorisce alcuni, piuttosto che altri?
Qual è il senso della vita?
Si dice che il nibbāna sia indescrivibile. Questa affermazione non ci fa girare attorno al vaso, per esprimere solo che si sta parlando dell'annichilazione completa dell'individuo?
Dopo tutto, un po' di sofferenza al costo di un po' di felicità, per la maggior parte della gente, è preferibile all'inesistenza.
Come mai un individuo che muore, che perde tutta la memoria della sua vita e rinasce, può essere considerata una stessa persona?
Com'è possibile passare dall'essere umano alla zanzara? E se si può rinascere zanzara, perché non un batterio. Dove tracciare un confine?
Cosa accomuna un essere umano, un cane ed una formica?
Cosa ci spinge nel processo circolare della produzione condizionata e, dunque, nel samsāra?
L'ignoranza appare in modo spontaneo?

A proposito di saṃgha


Perché i monaci non lavorano?
Cosa bisogna fare per divenire monaco?
Posso darvi del tu, Venerabile?
Un monaco è obbligato alla mendicità?
Perché i monaci debbono astenersi dalle relazioni con le donne?
Perché imporre l'astinenza sessuale, e perché considerarla impura?

A proposito di vipassanā


Qual è la migliore postura da adottarsi durante la meditazione?
Come reagire ad un mal di testa che turba la concentrazione?
Dove è possibile praticare vipassanā?
Cosa bisogna fare se non si ha il tempo di meditare?
Nel contesto di vipassanā, cosa significa "annotare"?

A proposito della pratica


Come spiegare il concetto che nel theravāda si cerca il risveglio solo per la propria persona, mentre nel mahāyāna lo si ricerca anche per gli altri?
Perché i buddhisti sono vegetariani?
Si può raggiungere il risveglio senza meditare?
Cosa bisogna fare per sperimentare il nibbāna?
Perché rinunciare ad ogni piacere? Non è, questo, infliggersi una punizione?
Perché il sesto precetto (astenersi di mangiare il pomeriggio)?

Domande diverse


Quel'è la differenza tra "hinayana" e "mahāyāna"?
Quanti tipi di monaci e monache vi sono?

6 domande al monaco sāsana


1 - Perché i bhikkhu non lavorano — per lo meno riguardo alla necessità di amministrare le loro necessità? Perché è necessario che essi dipendano dalla mendicità, o dai doni?
2 — Il canto degli uccelli, a volte, è più forte di quello della circolazione urbana. In ogni caso,ogni suono rappresenta un fenomeno uditivo, allo stesso titolo degli altri. Però, i suoni prodotti dagli uccelli sono generalmente tranquillizzanti e aspirano alla serenità. Come lo spiegate?
3 — Il rapporto sessuale è il più grande peccato delle regole monastiche. Viene anche proibito negli otto precetti. Perché questo atto così naturale e che procura solo della gioia viene considerato un atto negativo?
4 — Per Buddha, i maestri religiosi che -. sia pur in modo sincero e malgrado essi — diano degli insegnamenti sbagliati, sviluppano più akusala (demerito) degli assassini che uccidono, violentano e perseguitano selvaggiamente numerose persone. Perché?
5 — Qual è il rapporto tra l'indifferenza ed il distacco?
6 — Potete fornire una definizione ed una breve spiegazione di ognuno dei dieci kilesā (impurità mentale)?

A proposito di Buddha

Buddha è un dio?

Affatto. Era un essere umano, che è morto come tutti gli altri, al termine della sua esistenza (all'età di 80 anni). La sola cosa che lo differenziò dagli altri è che si applicò senza posa a sviluppare le pāramī (la virtù, la pazienza, la compassione, ecc.) durante un grande numero di esistenze, sino a divenire capace di scoprire da solo la via che porta al nibbāna e rivelarla agli altri.

Oggi, dov'è Buddha?

Al termine della sua ultima esistenza, circa 2.500 anni fa, Buddha entrò nel parinibbāna, come qualunque altro arahant che muore. Un arahant, ed a fortiori Buddha, non nutre più il minimo attaccamento. Di conseguenza, nessun fattore può procurargli una rinascita, sotto una qualsiasi forma. Soltanto un essere ignorante rinasce.

La maggioranza delle scuole divergenti pretendono il contrario, ma non ci dimentichiamo che esse sono apparse ben dopo l'insegnamento originale, dato dallo stesso Buddha; oltre che a diluirsi in differenti credenze esteriori. Come avrebbe potuto riapparire, Buddha, proponendo degli insegnamenti supplementari, così in contraddizione con quanto disse in precedenza?

Sia nel mahāyāna, che nel theravāda, coloro che pregano Buddha come un dio onnipresente seguono una via che non differisce in alcun modo dalle religioni teiste. Il solo modo di rendere omaggio a Buddha è di mettere in pratica il suo insegnamento, seguendo le raccomandazioni delle persone mature e non quelle degli ignoranti.

A proposito del Dhamma

Cosa è il nirvana?

Buddha parlava di "nibbāna". "nirvana" è un termine sanscrito. nibbāna è la meta ultima di ogni pratica nel Dhamma. La totalità delle azioni che vi vengono perseguite tendono ad ottenere il nibbāna, o a permettere che altri lo realizzino. Altrimenti, non si tratta di un contenuto del Dhamma. nibbāna non è uno stato spirituale. E neppure un luogo. E' una realtà che non può in alcun modo essere condizionata. Questa realtà viene sperimentata non appena appare la cessazione dei fenomeni fisici e mentali. Affinché questi ultimi cessino di apparire, lo spirito deve avere sviluppato un allenamento alla "visione diretta" (vipassanā, in pali) di questi fenomeni, in modo di essere perfettamente in fase con essi. Conosciuti come sono realmente, questi fenomeni non hanno più ragione di apparire. Se permane del kamma residuo, l'esperienza del nibbāna dura qualche istante. Se non ve n'è più, tale esperienza diviene definitiva. In tal caso, viene chiamata parinibbāna (nibbāna completo).

Cosa è il buddhismo?

La parola "buddhismo" non significa granché. Si può dire che rappresenta un grande assieme di scuole di pensiero, ognuna delle quali interpreta a suo modo la parola del Buddha.

Molti si compiacciono di affermare che ogni scuola è un approccio diverso, ma che tutte portano allo stesso scopo, che tutto fa uno, ecc.. FALSO! Buddha ha dato un insegnamento, non mille! Di conseguenza, alcuni hanno scelto di rispettarlo, di dargli fiducia, applicandolo tale e quale. Altri, da parte loro, vi hanno voluto versare la propria salsa, eliminare quanto non conveniva ad essi e mescolarlo con delle pratiche culturali del tutto contraddittorie. Se si vuole parlare dell'insegnamento di Buddha, piuttosto che del "buddhismo", è preferibile impiegare la parola Dhamma.

Il dhamma è una filosofia?

Non è qualche cosa che può venire inserita in una categoria. E' come lo spazio; non si può dire che si tratta di un "questo", o di un "quest'altro". Il Dhamma consiste in un assieme di cose che contribuisce alla libertà (definitiva, da ogni sofferenza) di ognuno. Tra queste, vi è:

  • La pratica. Un modo di vivere, che consiste nell'allenarsi ad una gestione benefica di tutte le percezioni.
  • Lo studio. Destinato a comprendere quanto viene praticato da un punto di vista teorico e la filosofia (o metafisica) del Dhamma.
  • L'insegnamento. Per portare a conoscenza del prossimo questa via di libertà; fargli comprendere gli innumerevoli benefici di questo Dhamma ed incitarlo a praticare e studiare a sua volta.

Il tutto esposto e strutturato dall'insegnamento che solo Buddha è stato in grado di rivelarci. Eventualmente, si può definire il Dhamma come "la scienza della realtà".

C'è una vita dopo la morte? Se sì, come spiegarla?

Dagli insegnamenti del Dhamma, ogni essere rinasce senza posa da tempi incalcolabili e non può liberarsi da questo ciclo senza fine, se non adottando un metodo giusto, capace di fargli sperimentare il nibbāna. La morte non è uno stato, ma soltanto un nome che indica il passaggio da un'esistenza alla successiva. Allo stesso modo che la frontiera tra due paesi, è senza superficie.

Come non possibile provare che non vi è vita dopo la morte, così non si può verificare che ve ne sia una. Tuttavia, più si avanza nella pratica del Dhamma, più si sviluppa una giusta comprensione della realtà, meno si dubita della parola del Buddha e più questa nozione ci sembra evidente.

Se gli esseri vivessero solo una volta, come spiegare che dei bambini pieni di gentilezza muoiano atrocemente, sotto torture abominevoli e che dei malfattori godano dei più grandi piaceri e del più gran lusso lungo l'intera loro vita, mentre stanno trascorrendola, uccidendo, rubando e seminando del male, attraverso altre maniere?

La Natura, che ha fatto così bene ogni cosa, perché dovrebbe dare fortuna a certuni e sfortuna ad altri?

Leggete il paragrafo successivo...

Perché mai la natura vizia alcuni esseri, più degli altri?

Non v'è alcuna ragione che questo succeda, essendo tutto molto logico nella realtà. Anche se la giustizia di un paese condanna, a volte, degli innocenti, o libera dei colpevoli, tutto ciò fa parte dell'inevitabile e incontrollabile gestione delle cause e delle conseguenze, rappresentata dal kamma.

Così, tutti i problemi ed i vantaggi che riceviamo nella nostra vita attuale rappresentano il frutto delle azioni che abbiamo compiuto durante le esistenze precedenti (ed anche in questa). Allo stesso modo, le azioni che seminiamo ora porteranno i loro frutti in vite future (o, nella presente).

Per esempio, una persona che adopera la parola per dei fini nefasti si ritroverà con delle difficoltà ad esprimersi, durante una vita successiva: ossia, sarà balbuziente, o muta. E, anche, delle persone eccezionalmente dotate in un particolare campo, come Amadeus Mozart, o Michelangelo, hanno necessariamente sviluppato la loro specialità, lungo intere esistenze.

Si tratta della stessa cosa per coloro che incontrano facilità, o difficoltà nella loro pratica di concentrazione. Quel che noi chiamiamo fortuna e sfortuna non sono, perciò, delle cose gratuite. Sono proprio degli avvenimenti, che coincidono in modo soddisfacente, oppure insoddisfacente; e che, in ogni caso, sono meritati in modo legittimo.

Qual è il senso della vita?

Secondo l'insegnamento del Dhamma, la vita non ha alcun senso. Relativamente (samucci saccā), essa contiene il significato che ciascuno vuole darle; ma, in senso assoluto (paramattha saccā), non ne ha alcuno. La sua sola direzione sta nel "girare in tondo". L'esistenza è costituita da un assieme di cicli, più o meno complessi, ad ogni livello, che si ripetono in perpetuo. Al di fuori della liberazione scoperta ed insegnata da Buddha, non vi è alcuna collusione a tutto ciò.

La vita è vuota di ogni senso, di ogni stabilità e, dunque, di ogni libertà. E' come una gigantesca prigione, con dei periodi più o meno dorati, o più o meno neri. Per sfuggire al circolo vizioso e senza fine dell'esistenza, basta distaccarsene e, questo, avviene progressivamente. Per giungervi, è necessario praticare attivamente la generosità, il buon comportamento, la concentrazione e la pazienza.

Si dice che nibbāna è indescrivibile. Non si tratta di una circonlocuzione per affermare semplicemente che si tratta dell'annichilimento completa dell'individuo?

Buddha è sempre diretto. Se nibbāna fosse stata l'annichilimento, avrebbe detto:"è l'annichilimento". nibbāna non è nulla e non è il vuoto. E' vuoto, ma non è IL vuoto. E' comunque una cosa, un oggetto di cui si diviene consapevoli quando non esiste più alcuna percezione sensoriale.

Dopo tutto, un po' di sofferenza al prezzo di un po' di gioia sono, per la maggioranza delle persone, preferibili all'inesistenza.

E' l'ignoranza a fare credere che una miscela di sensazioni gradevoli e sgradevoli sia una fatto augurabile. I saggi comprendono che l'assenza di sensazioni è la sola e vera felicità. Per quanto a lungo un essere erri nel ciclo delle rinascite non potrà mai conoscere, né evitare le sofferenze che lo attendono; delle sofferenze che possono mostrarsi più atroci e più lunghe di quanto ci si possa immaginare.

Perché un essere che muore, che perde l'intera memoria della sua vita e che rinasce può venire considerato lo stesso individuo?

Per quanto non ci si ricordi della nostra esistenza precedente e si sia dotati di un nuovo corpo, se trascorriamo questa vita a perseguitare gli altri, o a consolare la sofferenza dei più bisognosi, saremo sempre "noi" a subire gli effetti dei nostri atti passati.

E poi, non cambiamo di corpo ogni volta che le nostre cellule tornano a formarsi? Abbiamo la memoria completa di ogni azione eseguita in questa esistenza? Non siamo sempre "noi" a venire sottoposti alle conseguenze di un'azione fatta, che abbiamo del tutto dimenticata?

Com'è possibile passare da essere umano a zanzara? E se è naturale rinascere zanzara, perché non batterio? Ove tracciare un limite?

Si può transitare da un corpo all'altro, dal momento che è dotato di una coscienza. Nessuno nasce vegetale, perché i vegetali non hanno una coscienza. La coscienza non possiede né forma, né volume; allora, perché non passare da balena a piattola? Un uomo non può pilotare un grande aereo, una nave, e, subito dopo, un monopattino?

Cosa hanno in comune un essere umano, un cane ed una formica?

Sono dotati di una coscienza e delle stesse impurità mentali (orgoglio, paura, desiderio, gelosia, collera, ecc..)

Cosa ci sospinge nel processo circolare della produzione condizionata e, dunque, nel samsāra?

Lo stesso processo. Non possiamo venire a sapere quando tutto questo è cominciato e da che noi giriamo in tondo. La sola libertà che ci viene offerta è di fare il necessario per liberarci. Se Buddha è così conosciuto e tanto venerato è semplicemente perché ha trovato questa soluzione, questa possibilità di porre un termine definitivo a un simile "girare in tondo, senza finirla").

L'oggetto del suo insegnamento — il cui compito dei monaci è preservare e dare (a tutti coloro che sono pronti per questo) — consiste a fare prendere coscienza di questo punto (che si riassume ne le quattro Nobili Verità), a dare "la ricetta" di questa liberazione e ad incoraggiare ognuno a cogliere la preziosissima opportunità di questa vita, per fare quanto è necessario ad uscire da questa condizione, ove la sofferenza non conosce limiti. In effetti, è molto difficile (nel senso di raro) incontrare questo insegnamento e beneficiare di ogni condizione adeguata a metterlo in atto.

L'ignoranza appare in modo spontaneo?

Se l'ignoranza fosse priva di una causa, non esisterebbe. Fa parte del processo delle cause e degli effetti, chiamato paṭicca samuppāda. Lo scopo dell'insegnamento di Buddha è di sradicare proprio l'attaccamento (altrimenti detto la causa principale dell'ignoranza). Sprovvista così di primo impulso, l'ignoranza non potrà più apparire, proprio come un ventilatore che cessa di girare, se gli si taglia la corrente.

A proposito di saṃgha

Perché i monaci non lavorano?

Bisogna fare attenzione alla parola "lavoro". Si può distinguere il senso di "professione, impiego salariato" ed il senso di"compito eseguito".

Un monaco deve seguire un modo di procedere ben specifico. Che è incompatibile con l'esercizio di una professione. Bisogna fare una scelta: che sia una vita da rinunciante, o che sia un mestiere, o altra cosa.

Dal punto di vista professionale è chiaro che un monaco non deve lavorare. O, se no, a cosa serve essere monaco?

Dal punto di vista dei compiti, si presume che un monaco debba lavorare più di ogni altro, poiché è tenuto a praticare (anche durante il riposo fisico), senza mai perdere un istante in cose futili, o che non apportano del profitto ad alcuno (sul piano del Dhamma, ben certamente). E' tenuto a praticare senza posa una grande vigilanza; a non fantasticare ad occhi aperti, a non lasciarsi andare, a non discutere per il piacere di farlo, ecc.

Così, deve consacrare la totalità del suo tempo a perfezionarsi, a concentrare l'intera sua attenzione sulle proprie percezioni (dolori, movimenti del corpo, suoni, emozioni, ecc.) nel periodo della pratica. Deve restare assiduo nello studio e nell'insegnamento pratico e teorico del Dhamma.

Sottoposti ad un impiego "ordinario", si percepisce un salario, da cui si dipende totalmente per sostenere le proprie necessità. Eseguendo dignitosamente i suoi doveri al profitto di ogni essere, un monaco non percepisce un salario, ed è tenuto a non accettare, né ad utilizzare del denaro. E' dunque del tutto ovvio che le proprie necessità vitali gli vengano sostenute in una maniera o nell'altra. Ciò significa che delle persone che ne riconoscono la condotta rimarchevole e la benefica azione per tutti, al fine di sottolineare il proprio rispetto, o, semplicemente, per sostenerli, offrano ad essi ciò di cui hanno bisogno.

Commento: Ben si intende, esistono (ahimè) numerosi parassiti, che hanno tutta l'apparenza di un monaco, ma la loro ambizione, la loro risoluzione ed il loro comportamento sono del tutto contrari a cosa sia un vero monaco.

Cosa bisogna fare per divenire monaco?

Il vero modo di procedere per divenire monaco è di volerlo. Voler diventare monaco significa rinunciare al mondo, alle sue attività ed ai suoi piaceri (in pali, monaco si traduce in bhikkhu, che vuol dire rinunciante).

Il fatto di prendere la veste e rasarsi il cranio (entrare nella comunità dei monaci) non rappresenta che una formalità. Comunque, bisogna potere rispondere positivamente a dieci domande e non essere malato nel momento della propria integrazione al saṃgha.

Posso darvi del "tu", venerabile?

Quando ci si rivolge ad un monaco, è convenienza impiegare il "voi" (anche se si è monaci). Come non si mangia alla stessa tavola di un monaco e non gli si da una pacca sulle spalle, non ci si indirizza a lui con il "tu". Un monaco può essere gentile, caloroso, o benevolo; ma, non è "cool", o "sympa"; e non è un baba cool.

Un monaco è colui che consacra la propria vita alla pratica, allo studio ed all'insegnamento del Dhamma, per il benessere di tutti. Per poterlo fare, egli si coinvolge, senza posa, nell'osservanza di una condotta pura e rinuncia ad ogni piacere del mondo. Per questo, rappresenta qualcuno di nobile e di rispettabile; e si merita la deferenza dei laici. Che si traduce, notoriamente, in una certa distanza nei suoi riguardi. A proposito del modo d'esprimersi quotidiano, essa si manifesta attraverso un mezzo espressivo cortese e con l'astensione di un linguaggio famigliare, di cui il "tu" fa parte.

Un monaco è obbligato ad adottare la mendicità?

Un monaco non deve mai osservare la mendicità! Nella parola "mendicità", si trova il termine"mendicare", che significa "domandare", "chiedere", "sollecitare". In più, questo termine peggiorativo include l'idea di degradazione; ossia, di umiliazione. Ora, accada esattamente il contrario; il monaco non domanda mai nulla (o, non sarebbe un monaco!). Tutt'al più fa semplicemente conoscere le sue necessità a coloro che lo hanno invitato a farlo. E se esiste una richiesta, sono le persone che, a volte, chiedono al monaco di voler accettare tale cosa, o tal altra.

Durante la sua raccolta di cibo, il monaco deve restare perfettamente silenzioso ed immobile davanti alle abitazioni, ove si arresta. Tutto ciò che fa, è un atto di presenza davanti alle persone, per dare l'occasione a coloro che lo vogliano, di offrirgli quanto è necessario.

Così, le espressioni "fare mendicità" e "fare la raccolta del cibo", che, sovente, si ascoltano, a proposito dei monaci, sono delle traduzioni completamente errate. Si dovrebbe, piuttosto, dire:"fare la colletta mattutina", "andare a ricevere il cibo", oppure "praticare la propria ronda quotidiana".

Perché i monaci debbono astenersi dalla relazione con le donne? Perché imporre l'astinenza sessuale, e perché questa è considerata cosa impura?

Nel pātimokkha, un gran numero di punti concerne effettivamente il comportamento dei monaci con le donne (tutto quanto vale per i monaci, verso le donne, lo è evidentemente per le monache, verso gli uomini).

Buddha ha esortato i monaci del saṃgha ad astenersi da ogni contatto con una donna, sia pure quello di sfiorare la pelle, o di toccare i capelli... con un desiderio lubrico; o, anche, di isolarsi — non fosse che per un istante — con una donna sola, lontano da ogni sguardo; o sedersi vicino ad una donna, o, più semplicemente, parlare con una donna, senza la presenza di un uomo, in misura di comprendere il significato di quanto viene detto.

Il desiderio lubrico è la forma di avidità più forte che esista. Un monaco è, innanzitutto, un uomo, e può generare dei pensieri lascivi (sia pure molto deboli), quando si trova in contatto con una donna. Quando la sua mente si trova sotto l'influenza dell'avidità, e, in particolare, se si tratta di un pensiero scabroso, ciò genera inevitabilmente dell'attaccamento (come il desiderare che queste sensazioni — tattili, visive, olfattive, o anche gustative, o auditive — perdurino) e dei pensieri (come dei fantasmi sessuali e delle associazioni di pensiero, collegati a sensazioni piacevoli). Dopo il contatto, la mente non resta stabile, dov'era. Essa è capace di immergersi senza posa in pensieri lussuriosi, basati sul desiderio che le sensazioni sperimentate (o che avrebbero potuto esserlo) si producano, di nuovo, nell'avvenire. Tutti questi veleni mentali sono altrettanti veli, che mascherano la realtà, tale quale essa appare veramente ad ogni istante.

Non si tratta di un caso se gli errori più gravi concernono il più delle volte i contatti con le donne. L'atteggiamento di ricercare i desideri sensuali sta al polo opposto di quanto deve osservare un monaco: sviluppare la giusta conoscenza della realtà, per distaccarsi dalle impurità mentali (delle quali, una tra le più grossolane è, appunto, il desiderio lascivo).

Per riassumere, un accostamento con la donna provoca un desiderio, capace di distruggere tutto ciò che porta a progredire sulla via della saggezza, della conoscenza, della liberazione dalla sofferenza (dukkha). Questo desiderio distrugge la giusta visione della realtà, la concentrazione, l'attenzione, la vigilanza, la motivazione (nel Dhamma).

Inoltre, un monaco, che rinuncia ad ogni cosa, e che vive esclusivamente delle offerte altrui, ha il dovere di rappresentare la propria comunità — il cui compito è quello di tutelare e di fare conoscere l'insegnamento che conduce alla Liberazione — con nobiltà e adottando una condotta irreprensibile. I monaci vengono venerati perché consacrano la loro esistenza alla pratica del Dhamma (se possibile, alla sua realizzazione), al suo studio ed al suo insegnamento (onde permettere al più grande numero di persone di porre un termine definitivo alle impurità del mentale [kilesā]). Come si potrebbe mai venerare un individuo che trascorre il suo tempo ad investire se stesso nei piaceri sensuali?

Ciò detto, Buddha non ha mai costretto nessuno fare alcunché; un monaco può rendere la veste in qualunque momento e riprenderla quando lo ritiene più opportuno (tramite, la giusta procedura). Per esempio, se un monaco desidera avere una relazione fisica con una donna, nulla gli impedisce di lasciare la sua veste — cioè, di ritornare alla vita laica, rinunciando al suo stato monacale — per fare tutto ciò che gli sembra buono. Attenzione: un monaco che lascia il suo abito e mette quello secolare, è sempre monaco. A riguardo della verginità. non esiste alcuna regola; chiunque abbia tenuto una vita di coppia, o anche abbia avuto dei figli può intraprendere la vita monastica. Semplicemente, una volta divenuto monaco, o divenuta monaca, ognuno è tenuto a rispettare strettamente la castità, durante l'intero periodo della vita monastica. O, il suo stato sarà perduto a vita, poiché il rapporto sessuale — compreso quello con gli animali e anche la fellatio — costituisce uno dei quattro errori più gravi del pātimokkha.

A proposito di vipassanā

Qual è la migliore postura da adottare per praticare la meditazione?

Qualunque sia la forma di concentrazione praticata, la postura non ha una grande importanza. Ciò che, tuttavia, conta è di avere il dorso ben diritto. In tal caso, la parte restante prenderà, in modo naturale, un assetto corretto.

Anche se la postura del loto, o del semi-loto sono le più adatte, le persone nell'impossibilità di adottarle possono tranquillamente sedersi in modo diverso — per esempio, utilizzando un piccolo sgabello; o restando sedute su di una sedia, se non è loro possibile fare altrimenti.

In ogni caso, ci si dovrà sentire a proprio agio, il dorso dovrà essere retto; non bisognerà, soprattutto, addossarsi su qualunque superficie ed è bene non adoperare delle posizioni che provochino un'asimmetria del corpo (gambe piegate da un lato, ecc..)

Le mani potranno venire posate dove meglio ci sembra; la cosa non ha importanza.

Come reagire ad un mal di testa, che disturbi la concentrazione?

Durante una sessione seduta di vipassanā, se si prova dolore alla testa (o altrove), conviene non preoccuparsi più del movimento dell'addome e porre tutta la propria attenzione su di esso. Lo si dovrà osservare accuratamente, con l'unica intenzione di conoscerlo per quello che è, per come viene sentito, senza sperare che sparisca e senza cercare di fare altro. Lo si dovrà notare per tutta la durata della sua apparizione. Quando sarà cessato, o divenuto superficiale, si ritornerà sul movimento dell'addome.

Rimanere concentrati sul movimento dell'addome non è l'obiettivo di questa pratica; lo scopo di vipassanā è di sviluppare la concentrazione, portandola, in maniera ripetitiva, sui fenomeni percepiti. Durante la seduta, quando non appare nulla di particolare, ci si allena a notare il movimento dell'addome, perché esso è chiaramente visibile e sempre presente. Se un altro fenomeno più marcato (rumore, dolore, odore forte, ecc.) appare, sarà questo a diventare l'oggetto dell'attenzione. Così, osservando anche per un'intera ora, un dolore, se tutto viene eseguito correttamente, allora l'allenamento a vipassanā sarà stato ben praticato.

Dove si può praticare vipassanā?

Ovunque. Quando si vuole esercitare del tennis, bisogna recarsi su di un campo da tennis. Per vipassanā non si ha bisogno di nulla, poiché non si fa che osservare i fenomeni che vengono percepiti. Ecco perché possiamo fare tale allenamento non importa dove e quando.

Tuttavia, le persone che debuttano hanno bisogno di un luogo relativamernte calmo e silenzioso, per imparare ad osservare in modo corretto e senza venire disturbati. Tutti coloro che non posseggono ancora una solida esperienza di vipassanā hanno imperativamente bisogno di venire guidati, in modo regolare, da un istruttore qualificato. Il ruolo di istruttore è quello di equilibrare la pratica dello yogī, con gli insegnamenti che propone, con la descrizione della sua esperienza pratica. Ciò diviene indispensabile, affinché lo yogī rimanga sempre corretto in un giusto tirocinio, propizio allo sviluppo della concentrazione, evitando di sbilanciarsi su di una direzione falsa.

Potete consultare una lista di indirizzi dei centri di meditazione nel mondo.
Ma, prima di ogni altra cosa, leggete la pagine "Dove praticare?"

Cosa si può fare se non si ha il tempo di meditare?

Ogni persona che lo desideri veramente trova sempre un po' di tempo per farlo (quando si ha bisogno di andare alla toilette, si trova sempre la maniera, non è vero?). Più si brama di consacrare del tempo ad una pratica di concentrazione e più si finisce per conseguirlo; non è possibile che accada diversamente (se la volontà è autentica). Chi è pronto a condurre una vita di distacco sarà capace di rinunciare a tutto ciò che ha ed in cui era interessato. Quando il frutto è maturo, cade!

Ciò detto, non tutti hanno la capacità di "abbandonare ogni cosa" ed esistono dei periodi nei quali non possiamo liberare del tempo sufficiente per "meditare", allorquando ci vorremmo seriamente applicare. In principio, non è molto difficile trovare una mezz'ora al giorno (o un quarto d'ora al giorno ed un'ora, a fine settimana) per farlo. Se ciò è ben fatto, anche durante dei corti momenti, allora sarà una cosa molto benefica.

A parte ciò, va, comunque, detto che la vipassanā non si limita alla seduta. Questa pratica è ALTRETTANTO importante durante il camminare, che nelle attività. Non ci dimentichiamo di cogliere gli innumerevoli momenti "bianchi" che la vita ci offre ogni giorno, per applicare la nostra attenzione sui movimenti dei passi, durante la marcia; su quelli del corpo e dell'addome, se stiamo fermi. Quel che chiamiamo momento di "bianco" è quando non si è tenuti a riflettere, a parlare, ad ascoltare, o a concentrarci su una attività. Esempi: trasporto (metropolitana, treno), attesa (sala di attesa, appuntamenti), spostamento (camminare per la strada, percorrere un corridoio), pasto, toilette, malattia (essere malati, oppure ospedalizzati è sempre un'eccellente occasione per allenarsi ad osservare le proprie sensazioni, i propri dolori, ecc.), pausa, forti emozioni (osservare una forte emozione, come uno scatto d'ira, una gioia immensa, o una paura, quando esse appaiono è un eccellente riflesso da adottare).

Nel contesto di vipassanā, cosa significa "notare"?

Nel contesto di vipassanā, "notare" detiene il senso di "osservare" e non quello di "ripetere la parola". E' "nominare" il verbo che indica la parola mentale. Notare un fenomeno significa, precisamente: portarvi l' attenzione non appena lo si percepisce, così com'è percepito e durante tutto il tempo che lo si analizza. Se lo yogī debuttante ha difficoltà a notare i fenomeni, può, durante i due o tre primi giorni del suo allenamento, nominare mentalmente i fenomeni che osserva. Tuttavia, dovrà rapidamente abbandonare questo procedimento, che costituisce un disturbo importante per ogni yogī che progredisce nel processo di satipaṭṭhāna. Quando si parla di notare "ascoltare, ascoltare", "dolore, dolore", ecc. si tratta solo di un modo per indicare che si deve portare la propria attenzione su quanto viene ascoltato, per l'intero periodo di tempo in cui lo si fa; sul dolore, per la durata dello stesso, ecc.. In nessuno caso si deve ripetere, d'abitudine e mentalmente, la parola "ascoltare", o "dolore", ecc..

A proposito della pratica

Come spiegare che nel theravāda si cerca il risveglio unicamente per sé, mentre nel mahāyāna lo si desidera anche per gli altri?

E'sorprendente constatare a quale punto ci si può persuadere di certe cose unicamente per avere inteso, o letto, delle semplici affermazioni. Che sono, sovente, prive di fondamento.

Ci sono delle persone che pretendono di ricercare il "risveglio" degli altri. Riflettiamo trenta secondi e domandiamoci cosa fanno concretamente per ricercare il "risveglio" nel prossimo (salvo il fatto di parlarne spesso). Le domande da porsi, qui, sono:"Cosa significa cercare il risveglio degli altri?". E:"Cosa intendono costoro per "risveglio".

Secondo Buddha, soltanto noi stessi possiamo realizzare la giusta Conoscenza della realtà", il "risveglio", la cessazione di tutta la sofferenza, di ogni ignoranza. Non si può fare altro che inseguire "il risveglio" solo per SE' (pensiamo proprio che, se no, Buddha, che era dotato dell'onniscienza — cioè, della perfetta conoscenza di tutte le cose, del controllo perfetto di ogni potere psichico — non avrebbe esitato un solo istante, se fosse stato possibile, a dare l'illuminazione ad ogni essere dell'universo!). Egli disse:" Posso condurvi alla sorgente, ma non bere al vostro posto."

Non è possibile aiutare un altro, al di fuori di se stessi. La sola cosa che si possa fare per il prossimo è di fornirgli delle giuste spiegazioni, con saggezza; di guidarlo verso un sano sentiero ed aprirgli gli occhi su quel che è bene, per lui e per gli altri. Tutto ciò, affinché possa aiutarsi DA SOLO, e comprenda, così, gli inestimabili benefici di una nobile direzione, che potrà condurlo, poco a poco, verso questo "risveglio", che è il fine definitivo di ogni forma di insoddisfazione.

Come produrre, con efficacia, questa illuminazione al prossimo, se non si è, noi medesimi, affrancati dall'ignoranza? Come far comprendere il valore di un tale addestramento alla vita, se noi non lo abbiamo seguito? Come incitare gli altri ad osservare questo saggio cammino, offrendo dei buoni e giusti consigli, se non abbiamo sradicato da noi le impurità mentali (kilesā)?

Sicuramente, è sempre meglio di nulla distribuire attorno a sé dei consigli e delle spiegazioni, grazie ad una piccola comprensione acquisita. Tuttavia, consigli e spiegazioni dati da chi è puro nello spirito e nella condotta avranno infinitamente maggior impatto.

Questo sottolinea l'importanza di purificare, innanzitutto, se stessi, per potere essere di reale aiuto agli altri. Non parliamo neppure del fatto che solo una condotta di vita irreprensibile, che è il risultato dell'assenza di inquinamenti mentali, come l'avidità, o l'orgoglio, diviene un esempio rimarchevole per l'ambiente. E' un invito a lavorare sui propri difetti, un suggerimento a fare azioni positive, un incitamento ad evitare quelle negative e ad agire con intelligenza, per il benessere comune.

Il semplice fatto di essere un realizzato, un risvegliato diviene una vera benedizione per gli altri. Solo quando si è decontaminati si risulta veramente benefici per il prossimo.

Se molte persone sono cadute in fondo ad un pozzo, una di esse deve, prima delle altre, uscire da questo. Unicamente dopo di ciò, potrà recarsi a cercare una corda per aiutare gli altri a venire fuori. Come potrebbe farlo, fino a che rimane ancora sul fondo? Sottolineiamo che resta agli altri il fatto di afferrare la corda: nessuno potrà farlo al posto loro, qualunque sia il tipo della corda.

Malgrado questo, esisteranno sempre delle persone, che continueranno ad aggrapparsi a chi tenta di risalire verso l'uscita del pozzo (per cercare una corda, con cui salvare i rimanenti), impedendogli di arrampicarsi, accusandolo così:"Dovresti aiutarci, piuttosto che abbandonarci, specie di egoista!" Fuggevolmente, approfittiamo, qui, a indicare che queste persone non fanno, a loro volta, il minimo sforzo per tentare di salire, verso l'apertura del pozzo.

Perché i buddhisti sono vegetariani?

Certi "buddhisti" lo sono soltanto. Buddha mangiava della carne. Impose ai monaci di non dichiarare mai la loro preferenza, di accettare tutto quanto i laici mettevano nella loro ciottola, senza volere scegliere e senza fare i difficili. Tuttavia, precisò che se un monaco avesse visto, sentito o appreso che un animale era stato ucciso con l'intenzione di offrirglielo (o darlo anche ad altri), questi doveva rifiutarne la carne. Esiste anche la carne di dieci animali che un monaco non può accettare. Essi, infatti, a quell'epoca, rappresentavano, per molti, la nobiltà, o la sacralità. Per non turbare queste persone, i monaci non consumano questo tipo di carne. Si tratta della carne umana, di quella del cane, del cavallo, dell'elefante, del leopardo, della tigre, del leone, dell'orso, della iena e del serpente.

Salvo che per problemi di salute, un monaco non deve scegliere il suo regime alimentare. Tuttavia, esistono dei monaci che, per seguire la purezza, fanno voto di non mangiare quel che ha prodotto la sofferenza di un essere. Generalmente, si tratta di rinuncianti che seguono un vinaya (condotta) quasi perfetto e le persone che li nutrono conoscono il loro voto. Di conseguenza, non offrono ad essi che del cibo vegetariano. Ma, se questi monaci sono degni del loro nome, malgrado il voto, allorché qualcuno offrisse loro della carne, dovrebbero mangiarla.

Si può raggiungere il risveglio senza meditare?

No. Non concepibile raggiungere la meta finale, senza praticare la concentrazione. Per raggiungere il "risveglio" bisogna, per definizione, avere acquisito una conoscenza giusta e diretta della realtà. Come ottenere tale conoscenza della realtà senza essersi disciplinati ad osservarla in dettaglio?

Non soltanto bisogna "meditare" per raggiungere il "risveglio", ma bisogna praticare vipassanā per ottenerlo; difatti, unicamente in questo tipo di allenamento la realtà è veduta così come viene percepita.

E' dunque un grave errore credere, per esempio, che sia possibile raggiungere "l'illuminazione" con il solo recitare una formula un certo numero di volte.

Specifichiamo, che disciplinarsi unicamente alla concentrazione non è sufficiente per raggiungere "la meta ultima". La pratica della generosità e della condotta sono egualmente indispensabili., Se una persona effettua con facilità vipassanā in questa esistenza, vuole dire che ha necessariamente attuato la generosità e la condotta, durante le esistenze precedenti.

Cosa fare per sperimentare nibbāna?

Per sperimentare nibbāna bisogna incrementare molti fattori, durante un grande numero di vite. In tanti sono attratti dalla "meditazione", o sanno sforzarsi ad allenarsi per accrescere la propria concentrazione. Ciò significa che essi già si sono addestrati alla crescita di questi fattori, durante le loro vite passate. Elementi che si ritrovano nelle tre pratiche essenziali del Dhamma:

  • La pratica di donare. Si tratta del dono disinteressato, che consiste nell'aiutare al massimo delle proprie possibilità tutti coloro che si trovano nel bisogno, senza fare discriminazioni. Il dono può essere un'oblazione per sostenere chi disciplina se stesso degnamente lungo la via del distacco; l'aiutare chi non ha tetto, o cibo. Dono non è soltanto una cosa materiale. Può anche venire rappresentato dal tempo consacrato a soccorrere gli altri, dalla propria presenza accordata, dall'insegnamento, ecc.. Se il dono non perviene al suo destinatario, tanto peggio! Esso sarà stato fatto. Ciò che conta non è quanto viene regalato, né di offrire molto; ma il fatto di dare, di separarsi da qualche cosa e di farlo con uno stato spirituale positivo.
  • La pratica della condotta. E' la disciplina che consiste nel curarsi, senza posa, della propria virtù e del proprio comportamento: evitare di nuocere agli esseri (non provocare, non rendersi importuni), restare onesti in ogni circostanza (evitare di rubare, di mentire, restare sempre retti con se stessi), evitare di tenere cattive relazioni sessuali (adulterio, illegalità, pagamento, poligamia), evitare di intossicarsi (droghe, alcool), evitare di comportarsi in modo grossolano (gesta, parole), rispettare le regole (non fumare in luoghi pubblici, non fare rumore in una sala da meditazione), controllare i propri impulsi (non ingoiare qualche cosa ogni volta che si prova un po' di fame, non abbandonarsi, in ogni momento, alle distrazioni), restare attenti verso il proprio ambiente, evitare di chiacchierare a lungo di cose inutili, ecc..
  • La pratica della concentrazione. Una volta che i due argomenti precedenti sono stati sufficientemente sviluppati, possiamo procedere alla tappa finale: la concentrazione. Che consiste nel portare la propria attenzione sui fenomeni che percepiamo. Ciò permette lo sviluppo della visione interiore (vipassanā, in pali).

Per saperne di più, in proposito, consultate la sezione vipassanā.

Perché rinunciare ad ogni piacere? Non è, questo, infliggersi una punizione?

Al contrario, si tratta di una norma che permette di beneficiare della più bella delle ricompense! Trascorrere il proprio tempo a rincorrere i piaceri significa tallonare la sofferenza. Le energie destinate alla ricerca, o alla soddisfazione di un godimento — qualunque esso sia — contribuiscono a sviluppare solo l'avidità, la collera e l'ignoranza. Sono precisamente le tre realtà alla radice di ogni sofferenza. E, di conseguenza, al dolore che si rinuncia, abbandonando i piaceri.

Chi si impegna nella via della rinuncia, rifiuta i conforti fisici, le pratiche sessuali, il soddisfare ogni altro tipo di desiderio, l'accumulo dei beni fisici, il mangiare in tutti i momenti della sua vita, l' ascolto della musica, il perdere il suo tempo nelle altre distrazioni. Ma, costui, non dimentichiamocelo, rinuncia pure, e di conseguenza, alle disgrazie, ai pericoli, al samsāra, alla prigionia dell'esistenza e, in maniera più generale, ai numerosi problemi e alle difficoltà causate dalla ricerca, dal realizzo e dalla conservazione di ogni tipo di piacere.

Perché il 6o precetto (astenersi dal mangiare il pomeriggio)?

Per diverse ragioni. Di per sé, quando non vi sono delle attività fisiche pesanti, l'organismo non ha bisogno di venire nutrito il pomeriggio; basta largamente mangiare, in giusta maniera, la mattina.

Il fatto di ingerire un pasto (o più) supplementare sviluppa gli attaccamenti (golosità, avidità...). Un pasto supplementare produce degli ostacoli alla vita meditativa: perdita di tempo (ottenere del cibo, preparare, cucinare, mangiare, pulire i piatti, pulirsi i denti...), digestione (dunque, lo stomaco pesante, il corpo affaticato, lo spirito meno chiaro), una frustata troppo forte, durante un ritiro meditativo, ecc..

Anche se questo precetto non tiene conto di questo, possiamo, tuttavia, aggiungere a quanto detto i benefici del digiuno per la salute e gli aspetti economici di astenersi dal cibo il pomeriggio.

Osservazione: se questo precetto non viene osservato, si raccomanda, tuttavia, di mangiare a sufficienza a mezzogiorno e leggermente, di sera; per il bene sia della salute fisica, che di quella mentale.

Domande diverse

Quale differenza passa tra "hīnayāna" e "mahāyāna"?

Il theravāda è sovente, ed a torto, chiamato anche "hinayana". Quando ci si sforza di cercarne le ragioni alla fonte, ci si rende conto che la verità è molto lontana da quanto si legge e si sente ovunque, in proposito...

Durante i primi tempi del sāsana, il termine "hinayana" rappresentava il nome dato dai bhikkhu del saṃgha (sino a quel momento, unico) a coloro che, trovandosi in disaccordo con l'Insegnamento, avevano creato una loro propria scuola. Distinguendosi per una linea di condotta arida, stabilizzata sulla pratica, e negligendo, o evitando i contatti con i laici, produssero la prima divisione storica del saṃgha. In segno di disaccordo, dei monaci adottarono, allora, un modo di essere molto morbido; ossia, portato all'estremo. Questo movimento si trovò all'origine di altre scuole, come la "mahāyāna". Per l'"hinayana" è scomparso totalmente da molto tempo.

In pali, "hina" significa cattivo (e non piccolo) e "yāna" veicolo, via.

Buddha non ha mai parlato di piccoli, o grandi veicoli; questo concetto rappresenta una invenzione delle nuove scuole.

Il "mahāyāna" si è ufficialmente auto proclamato come tale, in seguito ad una divisione apparsa in seno al saṃgha, durante il secondo concilio, tenuto a Vaishali, attorno all'anno 410, avanti Cristo; circa 110 anni dopo il parinibbāna di Buddha. Il "mahāyāna" è notoriamente praticato in Cina, nel Giappone, in Corea ed in Mongolia. Lo si chiama anche "buddismo moderno".

Il "mahāyāna" è l'assieme delle scuole buddhiste (come il "buddismo zen" promulgato da Bodhidharma), i cui concetti filosofici attingono la loro ispirazione dì nelle dottrine di Nagarjuna e di Maitreyanātha.

Quanti tipi di monaci e di monache esistono?

Dal punto di vista theravāda vi sono cinque categorie che costituiscono il saṃgha, gli asceti, gli eremiti ed i laici. Tutti possono venire classificati secondo un ordine di priorità (per venire serviti, per essere degni delle manifestazioni di rispetto da parte degli individui delle categorie che vengono dopo, ecc.). Ecco una breve descrizione delle categorie di individui, per ordine di priorità:

Classificazione degli esseri secondo i precetti
nome in pali nom in italiano precetti osservati commenti
bhikkhu Monaco vinaya (per i monaci) Il vinaya non è propriamente un assieme di precetti. Definendo l'intera disciplina monastica, li include, ipso facto, tutti.
bhikkhunī Monaca vinaya (per le monache) Non può più esistere
sāmaṇera Novizio 10 precetti  
sikkhamāna Femmina novizia in periodo di prova, prima di diventare monaca 10 precetti Non può più esistere. Una sikkhamāna deve osservare i primi sei precetti dei dieci, senza il minimo errore, durante due anni, prima di potere diventare bhikkhunī.
sāmaṇerī Novizia 10 precetti Non può più esistere.
sīladhara Monaca 8, o 9 precetti Contrariamente ai laici, la monaca porta un abito "monastico", si rasa il capo e vive in comunità.
paribbājaka Asceta, o eremita dai punti di vista errati Molto variabile Un individuo di questa categoria può venire rispettato perché conduce una vita religiosa, ma i laici buddisti non sono tenuti a venerarlo.
upāsaka Laico che rispetta il Buddha, il Dhamma ed il saṃgha 8 precetti, o più Ai giorni nostri, un laico che soggiorna in un centro di meditazione è tenuto, generalmente, ad osservare gli otto precetti. Oltre a ciò, una donna deve indossare un abito sobrio, senza colori, né motivi.
5 precetti  
  Altri Meno di 5 precetti  

6 domande al monaco Sāsana

1- Perché i bhikkhu non lavorano, in particolare per sopperire alle proprie necessita? Perché bisogna che dipendano dalla mendicità, o dai doni?

I bhikkhu non dipendono dalla mendicità, perché non mendicano. I bhikkhu non domandano nulla; dipendono dai doni, ma non li mendicano. Inoltre, un bhikkhu non lavora semplicemente perché ha scelto di non lavorare. Vi sono coloro che desiderano continuare a lavorare per guadagnare il loro cibo; ma, generalmente, lo fanno anche per avere molto più di questo; per comprarsi ogni sorta di piaceri, di distrazioni, o di agi. Il monaco è colui che ha scelto di restringere — o, per lo meno, di cercare di farlo — l'utilizzo dei suoi piaceri. Di conseguenza, non ha più bisogno di denaro, né di guadagnarsi la vita, poiché non ha più nulla da comprarsi. Per quanto riguarda il minimo necessario al suo nutrimento ed al suo vestire, sono i laici che glieli offrono. Che sono, tra l'altro, molto contenti di approfittare dell'opportunità di praticare il dono e la carità, offrendo il minimo vitale — ed a volte di più — a questi monaci che, paradossalmente, non hanno nulla chiesto a loro.

E'un modo di vita; una scelta che il monaco ha fatto, a riguardo della quale non gli si può fare il benché minimo rimprovero. E se qualcuno osserva:" E' abbastanza facile fare il monaco, ci si fa nutrire, ci si fa alloggiare..", non ho che una cosa con cui ribattere: non ha che da provare, e constaterà da lui stesso: nessuna comodità, nessun divertimento, niente sci, né televisione, né musica, né sesso, né vestiti — al di fuori del minimo necessario (gli abiti) -, nessuna acconciatura dei capelli, non trucco, non gioielli, non orologio, non distrazione... Prendiamo l'esempio di una bilancia. Da un lato, vi è un'apparente facilità di vita, da parte di chi beneficia, senza sforzo, di tutto ciò che gli viene offerto; ma, ciò viene compensato dall'abbandono di tutti i piaceri e di tutti gli agi. Se qualcuno desidera fare questa esperienza, che la faccia. Se c'è chi trova che questa via sia facile — d'altronde, la si chiama "la via facile" — è il benvenuto; c'è del posto!

2 — Il canto degli uccelli è, a volte, più rumoroso della circolazione urbana. Senza distinzione, i suoni sono dei fenomeni uditivi, gli uni allo stesso titolo degli altri. Tuttavia, i suoni prodotti dagli uccelli sono, generalmente, pacificanti e suggeriscono serenità. Come lo spiegate?

Si tratta essenzialmente di immagini mentali, di rappresentazioni che si creano. Poiché noi viviamo in una società molto materialistica, con i trasporti, con delle macchine, si ha la tendenza a stabilire una distinzione sempre più violenta, espressa, a volte, in modo aggressivo, tra quel che si chiama il naturale e l'artificiale. Vi posso dire che, quando vi trovate in Birmania, in una sala (n.d.t. - di meditazione), cercando di essere concentrati sulla respirazione, sulle emozioni, sui pensieri... ed avete un'orda di corvi che vi urla attorno, questo non è certo più gradevole di una martello pneumatico, o della circolazione automobilistica. Si creano molti giudizi di valore: i rumori della natura dovrebbero essere incantevoli e rilassanti, mentre altri suoni si mostrano molto più stressanti. Mentre, di fatto, nell'approccio alla meditazione, si preferirà, in generale, che non vi sia alcun rumore. Che sia il rumore di un fiume, di uccelli o di una macchina, si prediligerà il silenzio. Nell'approccio che si riferisce alla visione della realtà — vipassanā — anche se, all'inizio, quando appaiono, i rumori tendono ad essere un disturbo, si apprende, poi, a considerarli come il resto degli oggetti mentali. Si cerca di accontentarsi d'osservare il suono e di non entrare nella logica della repulsione, se si tratta di una vettura, né in quella della seduzione, se è un uccello, oppure il rumore di un fiume. Ci si sforza di gestire egualmente tutti i suoni. Il rapporto con i suoni, in vipassanā, consiste nel conoscerli semplicemente per come appaiono. Si osserva il fenomeno dell'udirli, senza andare più in là di questo.

Il rapporto sessuale è la più grave delle trasgressioni monastiche. E' anche proibito negli otto precetti. Perché questo atto tanto naturale e che provoca solo gioia viene considerato come negativo?

In primo luogo, non è affatto considerato come un atto negativo. Poi, non è di sicuro un qualcosa che procuri della gioia. Reca, invece, nel mondo infinitamente più sofferenza che felicità, perché, a causa di qualche minuto di eccitazione nervosa su di un nervo frizionato, bisogna pagare il prezzo di una vera alienazione. E'sempre una schiavitù vivere con un partner. Pur se con alcuni, la vita di coppia trascorre piuttosto bene ed armoniosamente, questo è un caso che si presenta raramente. Il piacere sessuale genera dei comportamenti aberranti; persone che errano lamentosamente alla ricerca della loro preda, persone che arrivano a commettere adulterio; che compiono un crimine per soddisfare le loro pulsioni, i loro desideri.

E' un comportamento, in effetti, del tutto naturale; i cani fanno la stessa cosa, come anche i topi. Ma, è considerato un errore per il monaco, perché ha compiuto la scelta di astenersene. Se egli si abbandona ad una copulazione sessuale, non è più un monaco. Parliamo di una pecca unicamente nel senso di mancanza, di errore. Quando si commette un'inesattezza ortografica, non siamo caduti in uno sbaglio demoniaco, malvagio, che ci farà rinascere nell'inferno. Si sarà fatta soltanto una cosa scorretta e che bisognerà cercare di rettificare. Allo stesso modo, quando un monaco prevede una relazione sessuale, si appresta a commettere un fallo; un comportamento non corretto nella comunità monacale. Non un'azione che lo farà rinascere all'inferno, o che lo farà "peccare". Ma, che lo destituirà dalla sua posizione di monaco.

Nessuno obbliga qualcuno a "farsi monaco", e se certi hanno voglia di intraprendere dei rapporti sessuali, non troveranno chi li scoraggerà, in tal senso. Buddha non ha mai detto che questo atto era male, e che avrebbe portato chi lo compiva all'inferno. Affermò semplicemente che quanto impegnava certe persone non le differenziava molto dagli animali e che, di fatto, il sesso genera un numero considerevole di pene, di miseria e di sofferenza nel mondo.

Prima di farsi monaco, il laico che prende gli otto precetti, e ancora, i novizi ed i monaci sono coloro che desiderano eliminare del tutto questa dimensione dalla loro vita. Non vi è nulla contro natura in ciò, poiché niente proibisce di essere monaco, oppure monaca; e se si vuole continuare la vita da laici, con uno, oppure una partner, è del tutto possibile. La maggioranza delle persone che raggiunsero il risveglio ai tempi di buddha, faceva parte di questo caso. Che non è per nulla incompatibile. Si tratta solo di una questione di scelta.

Secondo Buddha, i maestri religiosi che — anche sinceri e malgrado essi — rilasciano degli insegnamenti errati, producono maggiori akusala (del demerito) che gli assassini che uccidono, violenti, e che perseguono numerose persone. Perché?

Chi commette dei crimini di ogni tipo commette delle azioni, la cui retribuzione sarà di subire la stessa dose di pena e di sofferenza. Come dice Buddha, chi ha fatto questo sarà debitore di una rinascita negli inferi, e, quando avrà purgato questa riserva di akusala, avrà, in qualche modo, pagato il suo debito. A quel punto, potrà riprendere nascita nel mondo umano. L'azione commessa da qualcuno — ad esempio, quella criminale — genera della sofferenza (sofferenza fisica — forse, la morte) nel prossimo, senza coinvolgerlo, in particolar modo, in una qualunque direzione esistenziale. Se queste persone sperimentano tali afflizioni è perché esse stesse le avevano indotte, in passato, ad altri. Ci troviamo, qui, nella logica relativamente semplice dell'azione e della reazione — che è, appunto, la legge del kamma.

Mentre, chi insegna delle verità dà un orientamento alla vita delle persone. Ne altera del tutto la direzione esistenziale. Anche se non procura ad esse delle pene fisiche, o mentali visibili, il fatto è che le orienta verso una destinazione che appartiene al sogno, che fa credere loro alla "verità assoluta", in una felicità eterna e perfetta, dopo la morte; che, di sicuro, è un'utopia. Ciò facendo, sostiene e sviluppa un motivo ben peggiore della violenza e dell'odio, che è quello dei progetti.

Allorché compiamo un atto negativo, questo è, forse, accompagnato da progetti, credenze, oppure no. Per esempio, se qualcuno ci cammina sui piedi, oppure è fastidioso, gli si dà uno schiaffo. Si commette, allora, un atto di violenza; si dà della sofferenza a qualcuno.

Consideriamo, ora, quando si incontra chi appartiene ad una comunità religiosa che non ci garba e gli si dà uno schiaffo, lo stesso schiaffo. Fisicamente, l'altro proverà la medesima sofferenza. Tuttavia, chi responsabile dell'atto, nel primo caso, avrà solo avuto un gesto violento, un accesso di collera non associato a nessun progetto, o a nessuna fede; e, nel secondo, il suo sbocco di ira e di brutalità sarà associato a dei progetti e a delle credenze. Di fatto, è necessario che rinasca nel mondi inferiori, avendo commesso degli atti di violenza ed essendosi lasciato andare a dei desideri incontrollati, quando tutto questo era associato a delle concezioni (di vita).

Ma, sino a che egli commette delle azioni violente, o si lascia andare a dei desideri incontrollati, senza che ciò sia legato a delle ideazioni e a delle fedi, non sarà sospinto a rinascere nei mondi inferiori; oppure, in ogni caso, vi saranno poche possibilità, in merito. Ecco la ragione per la quale quando una persona ha raggiunto il primo stadio del risveglio, quando è "entrato nella corrente", ed è diventata quel che viene chiamato un sotapanna, ha abbandonato ogni credenza. Non può più agire in modo che i suoi atti vengano associati a dei punti di vista di fede. Anche se commetterà ancora degli atti di violenza — come battere qualcuno — o si lascerà andare a desideri incontrollati, se non colloca il suo comportamento nel quadro di una credenza, di un rito, di una idea, o di una concezione che si ha della vita, non avrà la possibilità rinascere nei mondi inferiori.

Sono i punti di vista religiosi che possiedono la capacità di tirarci verso il basso. Anche se non commette degli atti di aggressività, chi non insegna e non predica altro che delle fedi e delle concezioni, vive in un vero concentrato di elaborazioni mentali. Costui rinascerà "molto in basso" e sperimenterà delle sofferenza penose, per numerose esistenze, poiché spinge altre persone nel mondo delle dottrine e ad agire quotidianamente, accecate da ideazioni e da punti di vista. Cioè, delle persone che, come normali esseri umani, avrebbero continuato a vivere, facendo il loro lavoro e commettendo, a volte, degli atti di violenza, o lasciandosi andare, di tanto in tanto, a desideri incontrollati, lo faranno, ora, sistematicamente, perché trascinate da una corrente religiosa, di ideologie, o di fedi. Faranno tutto ciò, nella cornice di un programma, di un progetto religioso, o ideologico.

In più, possiamo ancora aggiungere questo: quando in una società appaiono degli assassinii e degli stupri, è una cosa. Ma, quando in essa sorge un grande figura religiosa, emergente; o, quando vi è un forbito dottore in teologia, in dottrina filosofica, o politica, egli, a quel punto, catalizza completamente l'attenzione della gente e constatiamo che tutti si mettono a praticare ancor più quegli abomini. Lo abbiamo veduto nelle grandi conquiste religiose, ed in quelle ideologiche politiche; si commettono queste atrocità con maggiore intensità, perché il fatto di possedere una forte fede carica di maggior rancore e rende più ciechi. Si può ancora essere consapevoli di fare del male, quando si commette uno stupro. Ma, se lo si fa, seguendo un programma di epurazione etnica, che rientra nelle nostre ideologie politiche, si è intimamente convinti che, in realtà, tutto ciò è ben fatto.

Ecco perché i sommi capi religiosi, i sommi dottori in ideologia e politiche diverse fanno infinitamente più male (la storia è lì per dimostrarlo), anche se non uccidono mai, anche se non commettono violenze — fatto che resta, spesso, da provare. In più, quando si compiono delle brutalità, si può uccidere qualche persona; ma, allorché ci si trova sotto l'ascendente delle ideologie, delle concezioni e delle fedi e si possiede il potere, si assassinano persone a milioni, o se ne indottrinano a milioni; che, a loro volta, commetteranno atti di brutalità, degli stupri collettivi.... sotto l'influsso dell'ideologia che è stata loro trasmessa. Ecco la ragione per cui i grandi avvelenatori della società umana sono, giustamente, tutti questi religiosi e questi politici.

5 — In che cosa differiscono l'indifferenza ed il distacco?

L'indifferenza è un'attitudine che nasce dall'ignoranza, mentre il distacco è radicato nell'assenza di desiderio.

Quando siamo indifferenti non prestiamo alcuna attenzione a ciò che succede. Quando, invece, abbiamo un atteggiamento distaccato, accade il contrario: stiamo attenti a quel che succede. E non sviluppiamo dell'attaccamento a quanto accade, proprio per questo.

Si tratta di due attitudini del tutto opposte.

6 — Potete darci la definizione ed una breve spiegazione di ognuno dei dieci kilesā — ossia, delle impurità mentali?

Esistono essenzialmente dieci elementi, che rappresentano gli inquinanti. Si dividono in due categorie: quelle chiamate superiori e quelle dette inferiori. Ve ne sono cinque per ogni categoria.

La prima è il fatto di possedere dei punti di vista errati, delle concezioni, delle fedi — qualunque esse siano; in particolare, la credenza nell'"io", la credenza nel sé, o nel "in sé"; si tratta di reputare che qualcuno abiti questo corpo, o che sostenga questo spirito.

La seconda è il dubbio. Il dubbio sull'insegnamento theravāda e sulla capacità che esso possa condurre le persone al risveglio. Dubbio sulla legge dell'azione, dell'efficacia, di liberarsi dalla sofferenza, ecc..

La terza è credere nell'efficacia dei rituali; dunque, la necessità di praticare un certo rito religioso, certi rituali, come si osserva in tutte le religioni. Si tratta di una contaminazione molto attiva e molto diffusa in questo mondo. Queste tre contaminazioni vengono eliminate quando si fa, per la prima volta, l'esperienza del risveglio, e si raggiunge lo stadio chiamato sotapāna (colui che è entrato nella corrente). Ecco la ragione per la quale il sotapāna non effettua alcun rito religioso, non ha dubbi sulla veracità dell'insegnamento ed ha del tutto eliminato la credenza nel "me" (o, nel "sé").

I due inquinanti successivi sono il piacere, legato al desiderio dei sensi; e, infine, la collera, l'avversione. Questi sono rimossi soltanto quando si raggiunge il terzo stadio del risveglio. Il secondo — quello del sakadāgāmi — non cambia molto le cose, se non nel senso di indebolire simili inquinanti. Chi ha raggiunto il terzo stadio — l'anāgāmi — è libero dal desiderio e dalla collera. Buddha dice di lui, che ha raggiunto la felicità perfetta in questo mondo.

Di seguito, restano le cinque contaminazioni superiori, che vengono eliminate soltanto da chi ha raggiunto il quarto stadio — l'arahant; che è giunto alla liberazione completa: la fine di tutti gli inquinanti. La sesta contaminazione è il desiderio di fare l'esperienza delle coscienze divine, dette formali: gli jhāna.

La settima consiste nell' aspirazione di saggiare le coscienze divine informali — gli jhāna informali; che sono degli stati coscienziali estremamente sottili: i divini.

La nona è l'orgoglio, che può manifestarsi in tre modi...

Il modo grossolano, che è la convinzione di essere superiori, di avere qualità maggiori agli altri.

L'umiltà, che è la sensazione di essere inferiori agli altri, e di avere qualità inferiori ad essi.

L'orgoglio, attraverso il senso di eguaglianza. Si tratta dell'eguaglianza nella percezione che si ha di sé: ci si sente eguali agli altri.

La decima è l'ignoranza. Si tratta dell'assenza della conoscenza della realtà intrinseca dei fenomeni. L'assenza della conoscenza di cosa siano realmente le cose, in verità.

Solo colui che ha raggiunto l'ultimo stadio — cioè, quello dell'arahant — si è pienamente liberato, ed ha rimosso questo ultimo inquinamento del mentale.

Queste dieci contaminazioni fanno sì che gli esseri girino in tondo (soprattutto nei mondi inferiori), nel ciclo delle morti e delle rinascite. Lo compiono da tempi immemorabili e, fino a quando non incontreranno la rivelazione di Buddha, cioè, il theravāda, continueranno a esserne schiavi per dei tempi incommensurabili.


info su questa pagina

Origine: Domande di persone diverse (esposte, generalmente, per email)

Autore delle risposte: Monaco Dhamma Sāmi

Traduttore: Guido Da Todi

Data: 2001 – 2005

Aggiornamento: 29 settembre 2011