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Presentazione delle ragioni che hanno condotto il monaco Dhamma Sāmi a lasciare la veste monastica del saṃgha per divenire l'Asceta Dhamma, e adottare la veste marrone ed il turbante.
Ben inteso, grande è il mio rispetto per i 3 gioielli, di cui fa parte la comunità monastica. Tuttavia, la vita comunitaria e diversi punti della disciplina monastica non rappresentano più quanto di meglio conviene al mio temperamento ultra indipendente. Penso pure che per me voglia dire mettere la sbarra un po' troppo in alto, ora che mi conosco meglio e posseggo una comprensione più acuta di cosa sia veramente un monaco. Ossia: un individuo che rinuncia assolutamente a tutto, che rigetta i suoi minimi, piccoli desideri, e che si attiene costantemente al suo oggetto di meditazione, quali che siano le condizioni che incontra (freddo, fame, malattie...)
Oltre a questa essenziale aspetto, ecco tre altre ragioni che hanno motivato la mia scelta di lasciare la comunità monastica: la "purezza", la "libertà" e la "natura".
Al contrario di quanto si possa pensare, non entra in questione nessuna regola della disciplina monacale. Per quanto piccolo esso sia, ogni volta che uno dei punti di questa disciplina viene trasgredito, il monaco intacca la sua virtù; fatto che implica delle cattive conseguenza sulla sua pratica, o sulla fiducia degli altri nel Dhamma. In ognuno di tali casi, vengono accumulate delle volontà di demerito. I numerosi punti della disciplina monastica sono tanto più difficili ad osservare, durante i viaggi, oppure soggiornando nelle regioni non buddiste. Per cui, nel mio caso, l'interesse di fissare un codice di disciplina, che potrò rispettare accuratamente, senza venire costretto a cose che non mi siano di reale beneficio. Vale meglio un buon laico, che un cattivo monaco! Non dimentichiamoci che la purezza spirituale resta una condizione assolutamente indispensabile sulla via della Liberazione. In ogni caso, se ho lasciato la veste monastica, non è stato per ritornare alla vita laica.
Da un certo punto di vista, la vita del rinunciante è la più grande delle prigioni, poiché ci si isola da tutto e si rinuncia a tutto — anche, in una certa misura, ai pensieri! Ma, essa conduce alla vera libertà, la sola che possa venire qualificata come definitiva. Il mio proposito, tuttavia, non si stabilizza qui. Si tratta, piuttosto, della libertà di "gestire la propria prigionia". Tuttavia, per essere fruttuosa, questa libertà esige una ferma capacità a determinarsi e a ben mantenere le proprie decisioni. Se questa qualità ci fa difetto, conviene allora integrarsi in una comunità monastica, in un luogo ove di possa, tuttavia, venire seguiti da individui saggi e seri.
Una comunità — qualunque essa sia — implica sempre dei doveri, gli uni verso gli altri, e in una collettività monastica buddista, dobbiamo, spesso, stare sotto la tutela di un precettore. Oggi, sento la necessità di essere il mio proprio precettore, e l'utilità di isolarmi da tutto, nella mia pratica, di cavalcare da solo, restando completamente aperto al mondo, seguendo gli insegnamenti ed i consigli dei saggi e degli eruditi, ogni volta che sia necessario.
L'ignorante si lascia andare e cerca di controllare la natura.
Il saggio lascia andare la natura e cerca di controllarsi.
Anche qui, il problema non concerne che il mio modo di essere e non la comunità monastica buddhista, che — quando viene organizzata in perfetto accordo con la disciplina che le compete — offre ai miei occhi il mezzo più efficace per riuscire a controllare se stessi, lasciando libera la natura.
Questa terza ragione, che motiva la mia decisione di lasciare la veste rossastra può sembrare di natura benevola, poiché concerne solo degli aspetti esteriori, ma, per me, è fondamentale. Si tratta, da una parte, della veste stessa, e, dall'altra, del fatto di rasarsi. Sta fondamentalmente qui ciò a cui penso, quando parlo di "lasciare fare alla natura".
Il chiudere la propria veste — secondo l'attuale metodo, ogni volta che ci si reca fuori dal monastero ("come una salsiccia", i panni del vestiario arrotolati attorno al braccio, bloccati attorno al collo e tirati fin sotto le ascelle) — era un fatto che mi opprimeva, per non dire che mi torturava. Ai nostri giorni, più nessuno sa in quale modo i monaci avvolgevano la loro veste; la regola dice soltanto:" la veste, che copre sino al collo e le braccia". Voglio semplicemente vestirmi, in modo naturale.
Per la barba ed i capelli, ho sempre vissuto il rasarsi come una vera corvée; lo trovo "noioso", per non dire "rasato". Mi piace lasciare i capelli andare secondo il loro verso, in modo naturale.
Di fatto, lo sono già da tempo, in fondo a me stesso. Certo, avrei potuto rimanere un "laico, il quale pratica il Dhamma"; ma, darmi uno "statuto di asceta" mi aiuta a rimanere sulla rapida strada della Liberazione (l'autostrada A7!). Inoltre, quando si sta nella società laica, o nella comunità monastica, si rimane fusi nella massa; quando si cavalca da soli, non si ha il diritto di errare; e si è, dunque, sicuri di non lasciarsi andare.
Sicuramente, io non sono nulla. Ma, poiché in questo mondo niente sfugge alla catalogazione, bisognava ben trovare qualche cosa. E questo "asceta" mi è sembrata la cosa più adeguata.
Ciò può anche suscitare la motivazione degli altri per lo sviluppo di un comportamento pure meditativo. Penso anche che condividere l'esperienza di una profonda messa in pratica risulta spesso un migliore modo di insegnare, piuttosto che erogare grandi dottrine.
Desidero anche adottare una disciplina più stretta, nei momenti opportuni; ma, più morbida nelle mie relazioni con gli altri.
Poiché qualcuno si domanderà, probabilmente, con quale equipaggiamento cammino nelle strade di Francia e di Navarra, ecco la risposta.
Durante la vita meditativa, o asiatica, indosso una veste marrone molto semplice (un tessuto attorno alla vita ed uno sulle spalle), come anche un turbante attorno al capo. In un contesto molto più stretto, vesto degli abiti nettamente più"ordinari", ma molto semplici e solamente già usati, con tuttavia il turbante (questo lancerà una nuova moda?).In ogni caso, l'essenziale è di mantenere un comportamento il più puro che sia possibile, L'abito non fa l'asceta, è vero?
Alcuni diranno, forse: "Guardate isi Dhamma, ha scelto una vita di rinuncia, di meditazione". Ciò è falso. Non ho scelto — come si farebbe con una qualsiasi attività:" Dai, e se facessimo un po' di rinuncia? La cosa potrebbe essere divertente."
In effetti, non ho affatto "preferito" questo modo di vivere. Quando si prende ben coscienza del pericolo del samsāra, di una esistenza spensierata, in cui i debiti "karmici" non fanno che accumularsi, mi sembra che non si possa far altro che tutti il possibile per liberarsene. E' proprio come quando si corre per sfuggire ad un incendio della foresta; non si sceglie di correre. Durante tale frangente, non si spende neppure il tempo per fermarsi a cogliere i bei fiori che si incontrano lungo il cammino. E l'incendio delle impurità mentali e ben più devastante di un incendio nella foresta.
Maggiori informazioni sullo statuto di asceta: Cosa è un asceta?
Origine: Testo scritto per il sito.
Autore: isi Dhamma
Traduttore: Guido Da Todi
Data: 2010
Aggiornamento: 29 settembre 2011